Angeli, messaggeri di gioia

Pubblicato giorno 2 ottobre 2019 - In home page

 

Omelia del Vescovo per la festa di Sant’Arcangelo
e per le altre parrocchie in festa
Sant’Arcangelo, Chiesa parrocchiale, 29 settembre 2019

 Diciamo ‘angeli’ e pensiamo ‘gioia’. La gioia che ci viene dal sentirci sostenuti nell’aspra battaglia contro il male, contro l’egoismo, la corruzione, contro il vivere “come se Dio non ci fosse”. Vedi l’arcangelo Michele, nel cui nome ebraico è incorporata quella domanda fatale: “chi è come Dio?”. In secondo luogo, la gioia che ci viene dal sentirci raggiunti da un palpitante annuncio di intensa letizia: vedi l’arcangelo Gabriele, che investe uno spaventato Zaccaria con le prime parole che fanno da antifona d’ingresso di tutto il Nuovo Testamento: “Non temere: tua moglie Elisabetta ti darà un figlio. Avrai gioia ed esultanza”. Infine la gioia che ci viene dal saperci malati, e gravemente malati, certo, ma in via di pronta e piena guarigione. Vedi l’arcangelo Raffaele, il cui nome si trascina dentro una prodigiosa facoltà terapeutica: “Medicina di Dio”.

1. Pensiamo agli angeli, e sentiamo di vivere sulle rive di uno sconfinato mare di gioia. Vicino a noi continua a snodarsi una processione sterminata di creature danzanti, inossidabilmente felici. Mentre un’allegria cosmica, un tripudio senza riserve e senza inibizioni pervade la Chiesa e ogni comunità cristiana. E anche la parrocchia più remota del mondo ha la fortuna di appartenere alla gaia e numerosa famiglia dei “figli di Dio”, tra cui gli angeli e gli arcangeli, i serafini e i cherubini insieme alla smisurata moltitudine dei Cori angelici che cantano con voce incessante e con irrefrenabile esultanza le dolcissime melodie della gloria divina.
Ma passiamo subito a declinare alcuni profili di questa gioia a misura di comunità parrocchiale.
Un primo profilo è costituito dalla gioia della fede.

Credere non è fondamentalmente ‘trangugiare’ a occhi chiusi un pacchetto di verità, di noiosi precetti e incomprensibili divieti. Credere è anzitutto sentirci e saperci amati da un Dio che è Padre, che è nostro Fratello e nostro Amico. E’ vero: non esiste gioia più grande, più piena e più vera della gioia di essere amati da un Dio così.
Oggi ci vuole un bel coraggio a parlare di gioia. Il mondo è assillato da tanti problemi, il futuro è talmente gravato da tante incognite da ridurre il presente a incubazione del virus malefico della paura. Eppure rimane vero che la gioia è il “segreto gigantesco del cristiano” (Chesterton).
Il Vangelo è davvero la bella notizia. Ci aiuta a cogliere la radice segreta della gioia, una certezza irrefragabile: il Signore viene. Il Signore è vicino. E’ con noi tutti i giorni. E quando il Signore si rende presente, la gioia gorgoglia spumeggiante come d’incanto. Noi non siamo nella gioia perché le nostre cose vanno bene, ma perché Dio Padre ci vuole bene. E il segno inconfutabile di questo amore è che ci manda il suo bene più caro: il suo proprio Figlio Gesù benedetto e beneamato.

Di qui la domanda: la nostra comunità è formata da cristiani che vivono e contagiano la gioia della fede?

2. Un secondo profilo della gioia è rappresentato dalla gioia della fraternità.
Lo sappiamo. Quello che ci rende tristi è stare rinchiusi in una piccola bolla di egoismo: io, io, io. E gli altri? Un cristiano triste è una contraddizione in termini.
La tristezza è la ruggine che intacca la luminosità della nostra fede, compromette l’autenticità della nostra credibilità. L’antico canto gregoriano “Dov’è carità e amore, lì c’è Dio” dovrebbe essere l’inno di riconoscimento di ogni comunità parrocchiale. Ma non dovremmo limitarci a cantarlo. Dobbiamo impegnarci a viverlo e a praticarlo, day by day. “Da questo vi riconosceranno: se vi amerete gli uni gli altri”, ci ha detto il nostro unico maestro e Signore.

“Gli uni gli altri”: quante volte risuona questa espressione di reciprocità, soprattutto nelle lettere di san Paolo: “Amatevi gli uni gli altri”. “Perdonatevi gli uni gli altri”. “Sopportatevi gli uni gli altri”. “Accoglietevi gli uni gli altri”… Che noi siamo discepoli di Gesù si vede dalla gioia che si specchia nei nostri occhi e si riflette sui nostri volti. E’ la gioia di chi non si chiude nel circolo chiuso e soffocante dei propri interessi. Non si ripiega sulle proprie tristezze. Non va in giro con una faccia da funerale.
Ma non basta la testimonianza individuale. La parrocchia non è una somma di individui. E’ una grande famiglia, fatta da volti precisi, da storie concrete, da persone che si amano con un solo cuore, che respirano con un’anima sola. Oggi ci occorrono parrocchie che sanno sfoderare la gioia quanto più le attività ci assorbono, gli impegni ci assillano, le preoccupazioni ci mordono, le contrarietà ci spremono.

Domandiamoci: nella nostra comunità si respira la gioia della fraternità?

3. Infine, almeno qualche ‘pillola’ sulla gioia del servizio. E’ innanzitutto la gioia che si manifesta nella ‘qualità’ del servizio: “Il Signore ama chi dona con gioia”. D’altra parte non dobbiamo mai dimenticare che “c’è più gioia nel dare che nel ricevere” (At 20,35).
Ricordiamo ancora. Solo chi coltiva la gioia dentro di sé la può dare agli altri. E non disperiamo mai, perché “chi semina nel pianto, mieterà con giubilo”…

Rabindranat Tagore ‘salmodiava’ così:

“Sognavo, e vidi che la vita era la gioia.
Mi svegliai, e vidi che la vita era servizio.
Volli servire, e vidi che il servire era la gioia”.

+ Francesco Lambiasi